Sin fin

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Clara Janés

(Barcellona, 1940); figlia del noto poeta Josep Janés, prosegue il progetto letterario cosciente della sua realtà in divenire, matura le sue opere decisive, poesie, saggi, il romanzo, realizzando una nuova perfezione; si distingue come traduttrice, tra le più note le versioni dalla lingua ceca di Vladimír Holan e Jaroslav Seifert.

Ho colto con ammirazione il suono limpido che scava il cuore, come pacatamente, in un segreto ritmo, s’eclissa nel silenzio, e nel suo andarsene ricompone la sua chance - “… per nidi di oblio/ebbe inizio la mia morte” (Da: Guerra del Golfo, “Arcangelo d’ombra”, Crocetti Editore, 2005, traduzione di Annelisa Addolorato).

Patrizia Trimboli

 

 

 

Sin fin
(Fractales, 2005)


Sobre el pétalo leve
ondea la sombra
de una mariposa
y cae al agua un gemido.
La corriente es un vórtice
que aglutina la noche
y desde esa noche, la voz se multiplica, emerge, asciende a los árboles,
corre por las nubes,
corre, llueve, danza.
Llueve más allá del mar,
abriendo el horizonte,
la línea discontinua
sin fin,
que aúna nuestras horas
dispares
hasta que la galerna las dispersa.

Clara Janés

Senza fine
(Fractales, 2005)
 

Sul sottile petalo
ondeggia l’ombra
di una farfalla
e cade nell’acqua un gemito.
È un vortice la corrente
che agglutina la notte,
e da quella notte la voce si moltiplica, emerge, ascende agli alberi,
corre sulle nuvole,
corre, piove, danza.
Piove al di là del mare,
aprendo l’orizzonte,
la linea discontinua
senza fine,
che aduna le nostre ore più diverse,
finché l’uragano
le disperde. 

 Clara Janés

 

 

docCeHolan1

  • Una notte a Kampa: Ennèade per Holan - Parte 1
    Una notte a Kampa: Ennèade per Holan *

     

    Marco Ceriani

     

    1. Degli emblemi, delle entelechie. Del «verticalismo e della laidezza», ossia delle «due opposte ampolle d’una stessa clessidra»1, efficacissimo cartiglio inciso in un saggio premesso alla prima edizione italiana di Una notte con Amleto da Angelo Maria Ripellino, nessuna traccia sembra permanere nell’ultimo Holan, che aspirerà da un certo punto in poi (e massime riannodati i legami con la sua notte originaria, questa tavola pitagorica dello Spirito) a essere l’artefice dell’armonia atonale, a scostare dal sepolcro la pesante lastra della pietra verticale, a essere l’artefice del dissolvimento d’ogni gerarchia tonale, ma il piccolo sasso dai bordi di un campo o dal ciglio di un sentiero non spostare, per paura che ne fuoriesca «un serpe, uno scorpione, un popolo di vermi»2, suprema rinunzia e castità della sua pronuncia e dopo gli anni proprio in cui dal violento scorpione del barocco fu egli preso e vinto.

       Intendendo nell’uno, il verticalismo, riferirsi al tratto metafisico di quest’arte, giusta anche nei caratteri dei suoi juvenilia la predilezione per metafore sontuose e accidentate, vere e proprie ghiottonerie della sua barocca machinery-imagery; laide e sconce partite a dadi con il nulla e che sembrano volersi impossessare dell’indicibile; strappare al fogliame della primavera la spirale del canto più imprendibile; infilzare sulla canora e dilagante spoglia dell’estate l’economia superba del mottetto o la trafittura della clausola, in accordo col diapason dell’autunno più funereo in cui è ogni gnome ormai in disparte dall’enunciato scarno; ascoltare il tritume cubistico dei ghiacci che paiono creparsi nelle ossature dell’inverno del nostro scontento; stagione estrema, che ingiunge, questa, anche quell’enunciato ‘breve’ alle sue ceneri vittoriose, e ve le compendia, reliquie di una superiore sintesi, e ve le incendia, reliquie sul palco di un barocco resuscitato nei suoi cubiti spettrali; e nell’altra, la laidezza, riferirsi invece, bandita ogni cautela, alla declinazione oscenamente purulenta della sua scrittura, con tutta l’attenzione rivolta ai suoi cadaveri minuziosamente esaminati come nelle tavole di un nero d’obitorio, e alle pentecostali fatue fiammelle dei suoi cimiteri, e alle pompe funebri coi loro vestiboli maleodoranti di trucioli di bara, immagini queste che sembrano richiamare le strategie di certo espressionismo tedesco, raccordandolo alle sue insegne, Umbra vitae... Morgue... Heym... Benn3... così parlanti...; l’insigne studioso metteva l’accento sulla stratificatissima cultura del nostro poeta, sulla sua letteratissima e come raggiante da un crocevia-ombelico “pragheità”: tutta la statuaria e la golemica attrezzeria di Praga, dai romaneta di Jakub Arbes4 alla luna del San Giovanni Battista5 delle lettere ceche, Mácha, componendovisi in una torbida torba di miscele visionarie. Ma Ripellino rivelava anche come, in questa ur-Praga dettata quasi da un suo amoroso in-folio, tutto lo Shakespeare vi aggiogasse il suo strumento, e accanto a lui i metafisici inglesi con il Donne degli emblemi e delle entelechie in testa, e il barocco alchemico di Góngora, su su fino a Mallarmé cresputo di spume e dentelles e sferzato-fiaccato dai sovrasensi, fino a Rilke, fioco floreale intento ai suoi morbi decadenti e ai suoi lutti infiniti che constano di incursioni nelle estenuate profondità di grotte di parole, come se tutto il mondo, rifluendo, convogliasse in Wort; e ai grandi russi primonovecenteschi, pionieri di un secolo forse irripetibile: Chlébnikov con cui ha in comune l’ardore fonetico e l’inesausta forgia delle perfette leghe semantiche (si veda la «Preghiera della pietra» [Modlitba kamene] in Na postupu [In progresso]), Pasternàk, fraterno per le metafore tetragone e l’implacabile contrappunto degli incastri, e, insolitamente taciuto, Mandeľštàm, che a noi tuttavia sembra essenziale per il tracciato della sua fisionomia, alla cui voce terrosa e celeste, scafo nero sfuggito alle risacche del gran catalogo omerico, egli doveva pensare come alla voce di un antico poeta di Èllade.

     

    1. Nelle colonie penali di Eschilo. Gli anni Quaranta e Cinquanta sono anni cruciali per Holan: così dolorosi ma nel cui dolore egli seppe imprimere il segno di una svolta.

       A contatto con gli orrori della guerra e dell’occupazione nazista della Cecoslovacchia in un primo momento, e con l’orrore dell’immane, perché mostruosamente fuori scala, e silente crimine staliniano poi, il poeta opterà per una decisa abiura della vita, per una sua clausura feroce e senza scampo, strapperà «il magistrale fogliame delle multicolori parabole < e troverà > i semplici cerchi della solitudine che non conosce scuse»6. Sono gli anni della sua maturità più piena. Scrive, anche se vedranno la luce solo nei primi anni sessanta, le raccolte Bez názvu (Senza titolo), Na postupu, Bolest (Il dolore), oltre a Noc s Hamletem (Una notte con Amleto), sua summa. Tre, tra i molti, tasselli a comporre il poderoso segmento della transizione all’ultima stagione, [qui estesamente documentata a], della vecchiaia senza appello del vaneggiamento oracolare, dell’ascolto del terribile udito della notte, della stretta nel pugno ferrato di un unico ardimento seriale dell’afa e del gelo, della arruffata primavera e del lamentoso autunno, insomma sempre i suoi eterni temi, ma distillati dall’eloquenza, senza ipocrisia e senza artificio, del purissimo pensiero, della pura partitura inscritta nella pietra. Nasce il “poeta murato”7, nasce in lui la più potente concisione, si sciorinano i pannilani della concinnitas e i pannilini della brevitas come se fossero sudarî, scavati dal tarlo dell’analisi sino al bisbigliare più diafano. E allo specillo da laboratorio si sostituisce lo scalpello che cava il marmo nelle colonie penali di Eschilo8.

       Ma questa torsione a trecentosessanta gradi non avviene per caso, piuttosto essa passa attraverso un momento del lavoro del poeta che sembra privilegiare la ricerca di uno stile magniloquente e semplice, epico e arioso. Alla polifonia più snervata e alla strematamente barocca, al gelo dell’alchimia più astrusa e contorta, al trascorrere di immagini ammorbate, nella loro perfezione, come un arazzo di Góngora, subentrano ora le incarnazioni dell’Holan panegirista e «salmista» che celebra i “Soldati rossi”, artefici della liberazione della Cecoslovacchia dal giogo nazista in una prima fase (nella raccolta Rudoarmějci, ma anche in Dík Sovětskému svazu [Grazie all’Unione sovietica]), mentre solo più tardi, nel cuore dei suoi folti anni quaranta, nascerà l’Holan della “memoria”, il quale saprà svolgere, alla sua, di noria – a ogni cui bigoncia affioreranno e si plasmeranno, sotto il pollice scultoreo del poeta creatore di mondi e cartografo di regioni favolose, tessere rese vive dal vetrino dell’anatomista... – passandosela di mano, sfilata dalla carta del sogno perché sia assicurata a quella della veglia, tutt’un’euristica contraddittoria e thriller (Ripellino), ch’egli ci commina ed elargisce come se parlassero insieme, dentro i suoi versi, un antico oracolo interrogante dai risvolti ombrosi d’un suo sacro frutteto e sfruttando tutte le risorse messegli a disposizione da scrupolo spirituale in gironi assillati della mente, e quasi inquisendoselo, un suo ‘invisibile’; o un infinito geodeta che si affaccia alle soglie di un nuovo mondo scrupoloso di redigere l’inesauribile catalogo delle aritmie che caratterizzano il suolo della terra che noi calpestiamo ed attraversiamo, giacché è sul crinale del proustiano rammemorare, ma crinale di un proustismo misteriosamente rovesciato, manifestantesi non nella circolarità ma nella dissenziente e ossimorica contiguità, e sul filo dell’intermittente affabulare, in colori impastati alla macina dell’idillio campestre o silvano, che più guizzerà e si accamperà il coagulo dell’incipit-enigma, si incisterà e staglierà il fermaglio della clausola-ossimoro che vuole arbitrare ed abbattere, col suo meticciato figurativo e tonale, e di fatto abbatte, nel palpito di una chiusa così sibillina, nella stringatezza di una formula ipso facto ragionativa, ogni sviluppo consolatorio di racconto, spezzare l’osso del collo all’aneddoto raccontato intorno al fuoco9.

     

    1. Mauer. Holan vivrà d’ora in poi nelle sue due case sull’isola di Kampa.

       Nella prima, quella leggendaria dalle finestre a lunetta, la casa “Al mulino dei gufi” (U Sovových mlýnů), ma meglio sarebbe dire “del signor Gufo” – pan Sova, che ne era l’antico proprietario –, da cui traluce, di notte, la vampa di chi veramente fa la guardia al proprio cuore, il poeta abiterà dall’agosto 1948 al dicembre 1968, mentre nella seconda, sul lato opposto dell’isola, nella piazzetta detta del Seminario lusaziano (U Lužického semináře), vi resterà per i rimanenti anni della sua vita.

       Ma la fisionomia di quest’isola – cosiddetta perché la Vltava, fuoriuscendo dal suo alveo con un suo braccio fluviale, la Čertovka o ramo del diavolo, ritaglierà-isolerà i viottoli di una campestre Boemia nel salmo di pietra di una Praga astratta a furia di lontananza (da Kampa la si intuisce appena in certe giornate di frontale autunno, avvolta nel suo violaceo impalpabile caffettano, prostrata sul fiume e fiocamente accesa dalle panciute cipolle delle torri, dall’esile bulbo di un campanile, dal triangolo scaleno di due tetti, dalla fuga kafkiana degli abbaini...), sostituendo ad essa immaginarie edicole sacre, in un rupestre legno, che ai bordi di un campo complottano con le loro visionarie messi, ponticelli lillipuziani che scavalcano pozzanghere alla volta di idillici villaggi, più concreti mulini dalle ruote di legno che vogano nell’acqua a litografare le stagioni che si succedono alle stagioni, le lastre orizzontali in pietra immobile di neve che si sostituiscono ai lenzuoli di un’afa allucinante e trapassata – si insinuerà nel folto della creazione holaniana con questi secondi sudarî, con quelle prime coltri nevicate. E vi si insinueranno i muri, vera e propria categoria filosofica (secondo Justl)10.

       I muri perimetrano, i muri circoscrivono, i muri accerchiano, i muri alla fine riflettono, come specchi ustorî, i raggi di parole che pur così solide il nulla significano. I muri vi indugeranno – e vi indulgeranno – insegne. E vi entreranno signa di quell’ordine o «grandioso progetto seriale che solo la morte può, in ogni senso del termine, concludere»11. Ne fanno fede i concitati e scorciati raccontini che «foglio dopo foglio [...] modulo dopo modulo»12, e del paradosso dell’ironia infarciti, trascorrono dal sottilizzante sillogizzare al pericolante e traviato dubitare. E così i fitti cicli di Strach (Paura), Víno (Il vino), che sembrano quasi circondare il poeta come lapidarî a loro volta o spessi muri di un pensiero poetante asistematico ed antieuclideo, e che intitolano autonome raccolte, e nel cuore gnomico dell’ultima, poderosa tetralogia, quella – per intenderci – che va da Na sotnách (A lume d’agonia) a Asklépiovi kohouta (Un gallo a Esculapio), da Předposlední (Penultima) a Sbohem? (Addio?), i diversi segmenti intitolati agli “amanti” (Milenci), alla “paura” ancora, alla morte (Ona, Lei, cui si accenna, nel tremore della voce, con un vacillante, timorato pronome...), ma distribuita una così lunga tratta all’interno di quei titoli non in modo da richiamarne, in un’eponima insegna, la tematica unitarietà, né in atto di arbitrare e indirizzare, col suo atonalismo petroso e di buia lungimiranza, spigolosamente antifrastico e di acciaccato rigore, né di far congiurare verso un esito così anticorale e verso una sordità strumentale, da musica tenebrosamente da camera, il testo, bensì assegnata a un ordine numerale che la dissemina per ogni dove, tra altri multipli, ove nel molteplice potrà ricoverarsi il semplice, e quel ch’è scempio tornare in grembo al duplice, come dire che la serie si ricongiunge all’unità negata (privato una volta per tutte il libro d’ogni sua individualità gerarchica), scombiccherati isolati foglietti insomma, pallide scarificate ébauches, sequenze strappate che dal monomio < I > (in Předposlední la poesia Dies caniculares I non ha nessuna prosecuzione, giace inane... Una svista? o alle viste di un agognante nom tu una feconda lacuna?...) al binomio < I-II >, al trinomio < I-II-III >, al polinomio < I-II-III-IV ecc.>) dicono dei cortocircuiti di un pensiero piagato, d’una ulteriore scomponibilità e infinita ricomponibilità, dell’atemporale ciclicità e regrediente progressività di queste poesie, di cui si possono tranquillamente scompigliare gli addendi senza che l’insieme ne abbia a patire alcun nocumento. Tutto questo significa anche che la meditazione del poeta è sempre e solo su quel tema, scavato fino all’osso, e che ogni singolo frammento musaico del suo ininterrotto poema contiene in sé i semi generativi del suo conseguente, in una stasi prossima al furore, non varianti ma variazioni di inesausta inquietudine cinetica, che vagabondano da un testo all’altro, da un enunciato al suo stordente corollario. Si tratta, perlopiù, di poesie molto brevi (10-12 versi), in molti casi bipartite, dalla tessitura astratta, là dove esse esordiscono, ed espositiva del tema, della riflessione o del genere, e con accenti invece in clausula di una drammaticamente quotidiana gravezza e concretezza. Non è un caso che molto spesso dette clausole (un verso o due al più, ma a volte anche di più complessa organizzazione strofica, vere e proprie frasi – anche in senso musicale – che rispondono accusative e nei modi di un’eco, ma un’eco che rivolta nella sua pelle il guanto, alla frase di esordio, subordinate insomma che negano la principale e infilano ogni dialettica nel vicolo cieco dell’inganno e dello scacco finali), non è un caso, dicevamo, che dette clausole vengano molto spesso introdotte da una avversativa. Sono, allora, anche nel loro comporsi sulla pagina, il luogo della clessidra (ecco dunque che il cerchio si chiude), e questa nel tratto suo umbilicale, nel diaframma, agisce come il vessillo del più lucente ossimoro. Tutto ciò che è enunciato viene abbattuto con un cruento colpo di mano. Il discorso a tesi si inabissa nelle antitesi.

     

    1. Orchestrina caldea. S’era detto sopra, nel secondo dei nostri capitoli, “raccontini”; qualche torno di frase più avanti, nel terzo, stringendo verso una maggiore accuratezza e precisione, si corregge e si afferma che è “frammento musaico”; si dirà infine, con ultimativa icasticità, proprio qui, all’ingresso di questo capitoletto, scheggia, sì davvero, come una scheggia schizzata via dal ceppo di un macellaio13.

       Che cosa è accaduto nel frattempo, che cosa fu manifesto con sue tremanti e assottiglianti avanguardie, cosa, se non un che di contiguo o fortemente compresente all’ascesi, alla riduzione del nulla al suo nudo nulla, della nada ai suoi automi di cocente e brullo nichilismo – come in san Giovanni della Croce la subida alla Noche obscura, emblema in ascendente nel nostro poeta, che sfoglia se stesso fino all’esaltazione del suo più crudo nucleo, tělíčko catafratto, imprigionato in una particola in cui continua a permanere e ad ardere, tutto sommato, una superstite fiamma, in ciò egli fu un “mistico” –, quei nada o “nulla” che nel nostro Novecento investono alcune tra le più significative esperienze della letteratura e dell’arte in genere: dal Beckett corifeo che si dissangua sullo strumento, finché della sua povera orchestra di tre quattro elementarissimi legni non resta che l’impronta di uno di essi (ma Holan più grande dissipatore e più potentemente corale non si ridurrà a una povertà meno drammatica e meno incipiente!), al Mondrian dell’assillo della coreutica, in algebre di rami che hanno dentro di sé la memoria dell’albero che furono (ma Holan persin più prepotentemente fogliaceo non si ridurrà a radice meno tenace e meno dura!)?... Qui la prosa nutrice del verso mostra il suo povero e avvizzito seno; e qui sentiamo mormorare le matematiche progredite di certo Bach, che così soleva ammonire: «Le dissonanze si fanno tanto più dure quanto più si avvicinano all’armonia». È questo l’esergo che Holan appose alla sua raccolta forse più alta, Bolest.

       La parola ermeticamente si imbòzzola su se stessa e si rimodula in sé stessa infinitamente, sul sempre medesimo ceppo (Al confitèmini e Al lumicino per dire un equivalente delle espressioni cèche da Holan riportate in onore, Na sotnách, da fonte antico, e V posledním tažení?: chissà...), e all’edificio, mattone dopo mattone, viene sottratto ogni suo anelito verso quella curvatura o slancio che dell’edificare è reddito, finché non ne resta, di mattone, uno, una métope, un fregio... E tutt’intorno farsi la calca aggressiva, dei tre puntini di sospensione... Che nell’ultimo Holan si affacciano sempre più insistenti, fino a configurare il testo come un sovrapporsi di segmenti: intaccati dall’approssimarsi di questa vera e propria fisarmonica asmatica e ansiosa come nel grande réprobo Céline? Ma no, giacché il poeta afferma che essi sono il suo «cielo stellato», e ad essi si deve pensare come a un’ulteriore propaggine della sua disarmonica enarmonia... Affidarsi alle carte di questa celeste nautica, dunque, poiché come sostiene Char: «Entre télescope et microscope, c’est là que nous sommes, en mer des tempêtes, au centre de l’écart, arc-boutés, cruels, opposants, hôtes indésirables»14. E visto che le stelle indicano il cammino al viandante, illuminandogli la via, esse sono anche nei loro magici intervalli, e senza che in apparenza vi osservino le leggi della proporzione e della concordantia partium, che detta con giustezza pause e spazî, anche una propedeutica. Più che suggerire una soluzione per poi eluderla deliberatamente, le stelle dei tre puntini sospensivi nel nostro poeta seguono l’inverso procedimento: elusive ed eludenti come quelle piccole pietre che uno sciamano getta per terra, a saperle leggere offrono una decifrazione proprio nel porgere un mistero, sì che il senso vi si contrae in un ultimo spasimo e anelito.

       In rudi disadorni – e stellati dal punteruolo di una feroce ironia – componimenti, ognuno paradigmaticamente a sé e spogliato di ogni monumentalità metaforica, ognuno autosufficiente e durevole perché laconico al pari di una formula algebrica, questi frammenti li diresti scampati al diluvio universale o al canone d’una misteriosissima astrologia caldea15.

     

    5. Notturno Pietoso. Ma ritorniamo alle esatte parole di Holan: «Chi non ha mai osservato il cielo stellato non può capire l’interpunzione»16.

       Non può sfuggire al lettore più attento come, già a partire da questa espressione, si affermi nel poeta l’equazione: Poesis perennis = Somnia et noctium phantasmata, che popolerà, scalpellandone le nervature, d’una genia di spettri la pagina. Giacché la notte con il suo udito, in cui frusciano unite la torre del veggente e la spelonca dove l’assassino conta le sue prebende, e la luna con il suo pallore di ancella così infida ed equivoca diverranno luoghi di elezione della sua poesia, ed è in fondo sorprendente come in chi poté scrivere: «Solo un po’ di chiarore in noi si mescola / e l’oscurità già lo esaurisce.»17, assiepatissimo rapsodo stremato di notturni, convivano secondo il moto di un originalissimo pendolo gli opposti di luce e tenebra, immanenza e trascendenza, interno ed esterno, transitività e intransitività, sicché ogni dato fisico prelude al suo ribaltamento e il confuso anelito, l’agonistico palpito che invita alle cadenze del più ramingo passo, sospingendo a così chimeriche remotezze, dice che il suo predicato è nel passo immobile dai ceppi serrato. Il pellegrino (poutník) holaniano, questo eterno motivo delle lettere céche, che ha il suo esempio principe in Mácha, il quale a sua volta lo mutuò dal Wanderer dei romantici (ma forse, ancor più, su tutto ciò aleggia la siluetta del pellegrino comenico), tale poutník è lui stesso una sonda insonne e vacillante che nella Praga notturna va girando in tondo per trovarsi sempre allo stesso punto di partenza, come ci ricorda Ripellino in Praga magica, di Holan trascrivendo la lirica Není úniku (Non c’è scampo): «Barcollando di notte per il Ponte Carlo, / ti inginocchiavi dinanzi a ogni statua, / che portava alla Piazza di Malá Strana. / Ma accanto alla Torre del Ponte passavi poi all’altro lato / e ti inginocchiavi dinanzi ad ogni statua, che riportava ai Crociferi, / finché ti trovasti di nuovo in quella taverna, / da cui eri uscito un’ora prima. // Anche in altra epoca non avresti potuto altrimenti...»18.

       Come ben si vede Holan è dunque poeta di antitesi crudeli. E tuttavia, nonostante questo auto-garrotamento del toccare gli opposti del primo passo e sùbito del suo troncamento, nonostante le nude antilogie beckettiane dell’essere «immobile senza essersi fermato. In marcia senza essersi mosso. Andante senza andarsene. Senza ritornare tornato»19, difficilmente è possibile trovare più serenità che in un’espressione come «Chi non ha mai osservato il cielo stellato...», formula che stringe in sé tutto il senso rituale della poesia di Holan, poiché che altro è la stella, che altro la luna, se non una pietra che dona luce. Il nostro poeta comunque, sempre fedele alle sue corrusche acrobazie verbali e al febbricitante raziocinio delle sue eulogie, assegnerà questo appellativo, di pietra-luce, alla lastra tombale, chiamandola in Lemuria «aktinolit» (dal greco άκτίς ‘luce, splendore’)20! È la luna allora, davvero, a essere al timone dell’universo. E dunque se il sintagma notturno va inteso sia nella sua funzione aggettivale, di notte appartenente a notte, che di sostantivo, in un’accezione musicale, designante «una composizione strumentale o a volte vocale affine alla serenata, alla cassazione e al divertimento»21, e che si ispira agli incanti dolci e malinconici della notte, ecco che una mozartiana Eine kleine Nachtmusik vena, fino a sorridervi, la sua oscurità tragica, ecco che accanto all’Hamletiana, stretta nel farsetto di velluto nero del monologo e alla cui gola sorride la gorgiera della luna, e accanto alla primigenia e barbarica notte dell’Iliade, solcata dalla cervice impazzita delle fiamme di Ilio, agisce il pianismo chopiniano En la noche serena, che via via si accentuerà e nella sua fase ultima, in particolare, da noi esaminata, diventerà dominante di scarnificata maestria, di diafanizzata mestizia, in studî di una sonorità di ormai quasi impalpabile volume. Ma quando cominciò a infittire, in Holan, questa calura tinta funestamente di nero? Ripellino dice che fu quando «di nuovo la cellulosa servì più alle denunzie, agli Acta Pilati, alle lettere anonime, che alla produzione dei libri»22.

       Ma non è solo così, non è sempre così.

       A Holan poco doveva importare di delatori e staffieri.

       Nella prima casa in cui egli visse, la stessa che abitò l’abate Dobrovský, i pesanti scalini di pietra, le grevi finestre a lunetta drappeggiate da una opaca tela verde, le volte incalzate dagli incipit di mille incunaboli, tutto è memoria del fuligginoso protolapìdeo praghese, tutto cade sotto il velo luttuoso di una pece il cui fumo Praga ha respirato, ammalandosi ai polmoni. Il nero della notte è consustanziale alla pietra della città vltavina. E tuttavia questa indole negra Holan abbacinerà con le sue intatte visioni, listate di bianco, di grandi e iperboree nevi e lune guastamente romantiche! Del resto, se il nostro Montale poté dire: «Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture»23, Holan, in un suggestivo e commovente parallelo, troverà nel suo fluire verso il nulla incarnato nell’essente il suo nero saturo di bianco24, la notte ancillare ai prodromi del giorno e solo nella requie della poesia il pesante e finale destino dell’uomo. Ma finché la poesia ebbe vita e vitalmente guizzò, anche nel «più grande tragico della nostra epoca» (Vigorelli) fu possibile scorgere il soffio di un anelito. E la notte sfucina via con i suoi incantamenti e si fa, non diversamente che in Mácha, notte dell’ideale. Egli vi troverà la morte prima della vita, a partire proprio dal suo incessantemente interrogarla. Aggirarsi nel folto della creazione holaniana è allora come, in Praga, nell’angusto recinto dello Židovský hřbitov (Cimitero Ebraico), questo ur-lapidario, tentare l’impossibile regesto di tutte le lastre verticali, dalle soccombute alle irrigidite nel mostruoso loro decubito, tali sono le lastre che la sua notte d’elezione ha impressionato nelle scintillanti propedeutiche di un armonium scultoreo, mai in nessun poeta coniugandosi così verticalmente la fisicità con l’astrazione, il moto lungo con quello breve.

     

    1. Endiadi Murata. Ora non si pensi, giusta l’interna saldezza e la potente concisione che ne sigla l’andatura, nonché la scansione temporale coerente e senza apparente interruzione, tratto questo che parrebbe legittimare l’ipotesi di una sottile connessione tra le parti, a un unico gigantesco organismo delle quattro ultime raccolte del poeta, a un solo univoco tetra-dramma allestito in un tempo infinitamente scomponibile e indiviso. Non è senza caratteri ben precisi il fatto che esse si compongano piuttosto, nel diagramma delle sue Omnia, in un dittico che viene a occuparne, in una ben visibile endiadi, il quarto e quinto segmento. Dunque un doppio dramma – dìdimo di un dramma, un di-dramma... – nel mezzo segnato da una evidentissima cesura, uno spartiacque che assegna i primi due libri al postremo tratto pubblico del poeta e i secondi due, tutti intessuti di atti ulteriori e così oracolarmente testamentarî, al gesto futuro della sua postumità letterale. Si guardi a queste date: Holan scrive Na sotnách negli anni 1961-1965, e il libro vede la luce in una prima edizione, tirata in 12.500 esemplari, nel 1967, e in una seconda, tirata in 3.500 esemplari, nel 1968, presso la Casa editrice Čs. spisovatel. Una terza stampa di Na sotnách apparirà nel quarto volume delle Omnia, che reca il titolo di Na celé ticho (A tutto silenzio) nel 1977. Così la raccolta Asklépiovi kohouta degli anni 1966-1967 vedrà la luce in prima edizione, e tirata in 10.000 esemplari, sùbito nel 1970 e in seconda edizione nel summenzionato Na celé ticho.

       Ma gli ultimi due libri – Předposlední che il poeta scrive tra il 1968 e il 1971 e Sbohem? tra il 1972 e il 1977 – vedranno la luce postumi, nel 1982, due anni dopo la morte del poeta! Non è questo il segno di una precisa volontà? Justl disse che no25, che negli anni settanta difficoltà pari a quelle dei bui cinquanta interferiranno con la volontà del poeta di far sùbito uscire quei libri, e probabilmente è questo il vero; ma a noi piace pensare che Holan in qualche modo abbia istigato, nella fattispecie del suo dittico ultimo, quella postumità, che abbia tramato affinché essa vi componesse in filigrana quella perentoria insegna di «poesia scritta da un morto che solo dei morti leggeranno...»26. Con ogni probabilità – e questo al lettore più attento non dovrebbe sfuggire – dalle prime due alle seconde due raccolte qualcosa muta nel registro interiore del nostro autore, e non senza potenti influssi sulla sua interna forma. In fondo è proprio paradossalmente la continuità che davvero segna questo tratto della sua opera a isolarne e ad accentuarne la separazione. Se in Na sotnách e in Asklépiovi kohouta il parlato holaniano ancora agganciato a un dato concreto, pur nel già manifesto disinteresse per un prima e un dopo, conserva ancora i tratti di una successione temporale e gli agganci ad un passo di vocatività memoriale, prodromi questi caratteri del diario e delle serie e diario in cui un frusciante pennino, come in una sismografia, traccia sue sghembissime e tortili linee, ma pur le traccia, e rende visibili le costanti di rastremati profili, nei successivi Předposlední e Sbohem? la perdita, vorremmo dire, di peso corporeo di ogni singolo ordito, che sempre più si affida ad una astrattività insolente quasi, giusta la sua programmatica assenza di contatti con una nomenclatura che fa invece della sottilizzante precisione il suo credo, tale perdita fa sì che gli anelli del prima e del dopo, e di ogni temporale avverbialità, saltino e si spezzino. L’approdo agli esili e spossati Lieder della sua estrema vecchiaia culmina nell’isolamento e in un dominio tonale dove hanno rapporto tra di loro solo gli sfuggenti palpiti delle ombre, superata nell’isolata linea del verso persino l’immagine oramai, e rimasta, per usare la stringente formula di Giovanni Raboni, la «mente sola»27. Si vuole qui dire che non c’è più nemmeno quel procedere errabondo ed estatico, quella schubertiana “divina lunghezza” che pure sembrò, a un certo punto, essere in Holan il suo solo metronomo, ma già dai titoli di alcune sue poesie, tra le ultimissime, come Glosa (Glossa) e Motto (in italiano nel testo originale), intendendo con “glossa” riferirci, nella metafora, a quell’insieme di annotazioni che il giureconsulto Irnerio e i suoi discepoli fecero al testo delle leggi romane (qui invece il nostro poeta emenda il gran testo di una sua personale Praga tetramente giuridica; o forse no, Praga si fa assente come la cava in cui K. viene condotto al supplizio...), e con “motto” al detto breve e sentenzioso, ma anche, perché no, al muttum rampogna, borbottamento, al bon mot facezia scherzo verbale, al mot d’ordre, parola d’ordine, emerge con radicalità l’abbandono anche di quell’unica linea melodica e ad essa subentra la sua scorporata epifania. Il poeta ha finalmente trovato la morte prima della vita.

     

    1. L’«ospite in casa» o del corpo, dell’ombra. Non credo debba sfuggire al lettore come la traduzione sia natura pervicacemente e perniciosamente solistica, esemplare, a sé stante, pur nella continuità di un medesimo progetto. E come tale effrazione ossimorica, nella nostra fattispecie, da anta ad anta del dittico cui il qui scrivente, dapprima in un a solo temerario poi con la fattiva collaborazione di Giovanni Raboni, diede corpo di “versi italiani”, segnali nella immedesimazione in uno stesso spirito interpretativo la divaricazione formale, anzi di pensiero formale. E quasi fosse un maestoso Giano bifronte, a collazionare, per esame, una di esse a fianco dell’altra, e quando a intervenire sia un largo intervallo di tempo, si ha persino l’impressione di avere sotto gli occhi il grafico di due scritture appartenenti, giusta i due diversi interpreti, a due diversi autori.

       E così nella prima parte del nostro lavoro, la più esile e rastremata, e in risposta al suo carattere eminentemente antologico, ecco l’infittirsi delle cancellature e delle abrasioni, delle velature e delle sordine, una vera e propria tecnica degli omissis che, accanto ai congegni sintattici della ripetizione, ma vòlti questi ultimi a un effetto di rallentamento, come a volere di questo tutto accentuare i caratteri di abissalità, suggerisce un pudore rovente sin quasi al gelo di sfuggente mormorazione, di mentale sillabazione, al cartesiano crocevia di res cogitans e res extensa. E ciò se il lettore si confronti con la sola silloge de Il poeta murato che, data la sua natura di florilegio, accredita, nel presentarla, la scrittura holaniana in un suo passo intermittente e rapsodico, dettato da un pendolo soccorrente o omettente che ne segna l’incedere. Si potrebbe dire che tale lettore è posto di fronte a un precipitato di temi, caratterizzati dalla disseminazione. Questo è vero per le singole fisionomie, ma non corrisponde all’intimo piano di verità su cui si muovono i suoi versi. Infatti a leggere tutto Holan ci si avvede che a riscattare tali righe, motti o sentenze, riportandoli al loro livello di cocente verità fattuale, è proprio l’ostinato seriale. Pasolini scrive che Holan fa «il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia»28, né esattamente so se questo corrisponde a quanto io vado circoscrivendo. E tuttavia il poeta incide un verso e tale e quale lo ripete come se ad esso fosse intrinseca una naturalezza e ineluttabilità, una vocalità da fatale ritmo circolatorio e cardiaco, da primordio del respiro. Insomma il poeta fa il gesto di vivere anziché vivere perché questo corrisponde alla più profonda essenza, essenza riflessa, di ogni vicenda umana e animale. E così dove nella prima parte vigeva la litote nella seconda si dà la marcatura forte, dove nella prima barbagliava la nuance nella seconda si afferma l’intattezza univoca, dove imperava omissione il soccorso-concorso elettivamente detta il suo motivo. E se nella prima la macchinazione aforistica era messa a punto dalla prodigiosa esattezza metaforica della lingua che vi insinuava i suoi reami d’ombra, nella seconda una letteralità coraggiosa e ignava, di audacia arrogante e remissiva umiltà, perché sottraentesi nei suoi scatti retrattili e non disposta a passare in giudicato, fa scattare ex abrupto le tagliole del suo senso, senso di prima mano. È l’incistata grammatica dell’orafo, ipertensiva e sfuggente, che si confronta col prognatismo del punteruolo. E tradurre Holan significa anche, se si ragiona a cospetto della campionatura o invece dell’interezza, adottare questa strategia o quella. Che si tratti eminentemente di errore tattico? Campionare il poeta e campionarlo drasticamente, scegliendo quella sua tessera e ad essa sottraendo le sue variabili, adiacenze, impronte e tic e magari affiancare detta tessera ad altra di ceppo non contiguo, significa optare per la frazione, la disseminazione e il molteplice invece che per l’intero, la concentrazione e il semplice. Non sarà un caso se tra le ormai molte versioni di Holan nella nostra lingua, quasi tutte di valenti, la più radicale e vicina al verbo del poeta è quella della Mozartiana II offertaci da Sergio Corduas29. Non è, ad esempio, del tutto comprensibile, pur nella sua utilità persin preziosa, la scelta delle due epifanie ripelliniane, poiché è arbitrario che ai due grandi poemi Noc s Hamletem e Toskána siano accompagnate le divaricatissime costellazioni dal complesso ingente della sua opera. Non è comprensibile, anche se giustificato da evidenti ragioni. Ma il carattere che emerge da una tale visione d’assieme è quello combusto, tagliato da fiamma ossidrica, fumante come un relitto, di divise in cenci e eserciti in rotta sùbito dopo la sanguinosa battaglia, mentre in Holan vige un ordine pur nel sanguinamento elisabettiano.

     

    1. Nomi di numeri. Un’altra caratterizzazione saliente dello stile (e stilo!) del poeta è data dall’affiorare, fittissimo, dei titoli in latino.

       Lo spoglio che segue, ordinato alfabeticamente e ambizioso d’esser completo, dice: Absurdum per absurdius; Abyssus abyssum; Ad candidum decembrem; Amor fati; Annus glomerans; Ave atque vale; Caput mortuum; De carcere et vinculis; De herbis, verbis et lapidibus; De spermate; De tartaro libidinis; De tempore barbarico; Dies caniculares; Dona lacrimarum; Eodem anno pons ruptus est; Femina duplex; Femina simplex; Flatus vocis; Haec summa est; Hic bibitur; Igitur; Incipit; Incipit imago; In speculo?; Introitus vaginae; In valle lacrimarum; Invocat in voce; Miserere; Mors ascendit per fenestras; Nasci, pati, mori...; Navigare necesse est; Noctiluca; Non cum Platone; Nunc; Partus labyrinthi; Partus labyrinthis; Per amica; Per amica silentia lunae; Per procuram; Probatum est; Repone gladium in vaginam; Signifer; Somnia et noctium phantasmata; Spiritus lenis; Stupra; Ubi nullus ordo, sed perpetuus horror; Vanitas; Virgo, arbor, virga; Vivunt nec sapiunt. Un primo sintomo è come essi, nella quasi loro totalità, si affaccino proprio sulle ultime quattro raccolte del poeta e questo, probabilmente, non è senza una ragione. Alcuni inaugurano una vera e propria serie (come è occorrenza quasi ritualistica, tanto è marcata e visibile, nell’ultimo Holan): ecco allora Amor fati I-II, De spermate I-II, De tartaro libidinis I-II-III, Dies caniculares I-II (questa “piccola”, così composta, serie è in Na sotnách; mentre in Předposlední è campione isolato un Dies caniculares I senza un séguito, e Bolest affaccia a sua volta un Dies caniculares 1951...), Igitur I-II-III-IV, Introitus vaginae I-II, In valle lacrimarum I-II, Stupra I-II. Ma dai latini affiora anche, o coi latini sembra incrociarsi, un italiano così adiacentegli da costituire poco più che un’effrazione, un lieve accidente, come in Vivete lieti, o tale da indurre il recensore ad una severa sospensione di giudizio circa il suo àmbito di appartenenza, a considerare, alle corte, l’indecidibilità di assegnargli una lingua o l’altra, italiano o non italiano? latino o non latino?, come nei casi di Murata, In margine, Per amica, Primogenita.

       L’impatto, parlo dell’occhio, presenta latino e ceco congiunti in una feroce inconsanguineità, in una copula di inappartenenza. L’impressione è tanto più forte proprio per la distanza che separa le due superfici linguistiche. Ma basta imbattersi nel poeta forse più vitale e necessariamente concreto, perché il più attento alla manualità, del Novecento, e che fu cristallografo, che sbucciò i monastici cappucci delle pigne, e ammirò la pietra ben squadrata, e si infuse al vigore del vomere dell’aratro, Osip Mandeľštàm, che in La parola e la cultura così scrisse: «La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili»30, perché quel pregiudizio si dissolva e Holan, poeta lui pure che plasma con le sue forti mani, ci dica come quel latino sia lo strato profondo del tempo, la sua terra nera, rivoltata dal vomere del ceco e posta in alto. O può darsi invece che questo latino sia il vomere che con il suo acciaiescente acume dissoda e rivolta, nella fattispecie del ceco, un ceco mortifero da finis Bohemiae, gli strati del tempo. Ecco dunque che il cerchio si chiude. Una lingua sempre minacciata nella sua sopravvivenza si coniuga con le remotezze liturgiche del latino, con i blasoni della sua atemporale e non insidiabile fermezza. E pertanto, a questo proposito, superata la prima ingannevole superficie, vale forse la pena di ricordare che anche certi titoli cechi supinamente soggiacciono ad esso. Valga ad unico e appagante esempio il Vanutí quasi sobillato per partenogenesi dal Vanitas (mentre Nokturno e Pastorále lo sono, sobillati, dall’italiano, che è un dirli poco meno che ‘invasi’ da quella gran matria: embricature tra il poeta e la musica, quella stessa cui si volge il Mezza di voce col suo incipit Ale je hudba (in Na postupu), e inferiture alla gran vela del filosofo avido di conoscenza, come per il caso di Lamento, posto quest’ultimo a insegna del terzo segmento nelle due Omnia del poeta, sì quel Planctus (che vale sia per un “battere con rumore”, un battito d’ali o uno sbrindellarsi quasi di vele e tende – quante volte l’Ulìsside avrà sentito le sue di vele come le trecce del gran bucato di burrasca sbattere sulla pietra del gran pélago furioso – che come manifestazione rumorosa di un immedicabile dolore), da pensarsi, come da ognuno fu fatto, per uno straniato italiano, ma che in realtà è grembo a un lamentace, ad un lamentovat, tessere fioche e distanti, detti in luogo dei più correnti e concreti nářek, naříkat, disadornamente colloquiali; sì, il Lamento-Threnus che volentieri configureremmo in un, come definirlo in una grammatica scevra da arbitrio, sostantivo neutro?, un deverbativo? o, molto meno che questo, con sineddoche che ricorda, oblativa, Baudelaire, una épave dal ceco antico?, giusta in Holan ogni sua sonda verbale, a questo crocevia, raggomitolata su se stessa in una serpentesca tautologia, che gli fa dire di parlare e di scrivere una sola lingua, ma infine di capirle e intenderle tutte: è quest’ancoraggio, d’un morto latino e di un ceco deciduo, per il poeta il suo solo rifugio; sono queste lusinghe, di latini perenti e di cechi amantes amentes, le trappole di quegli scogli verso cui ci ammaestrano ammaliatrici le Sirene; si compiranno, in questi due approdi, del latino e del ceco, per il poeta le sue horae subsicivae...). Potrebbe, a questo segno, il «vanutí» intendersi in guisa di notazione dinamica, come a insegna più generale «lamento», o ancora «pietoso», o un “andante”, di moderata velocità, d’altro luogo, Andante na tři dívky zabité padající zvonem, poesia pubblicata in Lidové noviny nel 1929...       

      

Ceriani su Clara Janés

  • Poesie a lei dedicate da Marco Ceriani

    Tetracordo praghese

    A Clara Janés

     

    1. Pietra.

    Sono dinnanzi alla tomba di K.
    Nel Nuovo Cimitero Ebraico a Praga.
    La stele è un dente di tetragona pietra.
    Le logge in sasso delle cave di Tracia
    Sono nulla al paragone con essa.
    Come tutto è immoto ma niente
    Di bisbigliare cessa sotto i platani invasi
    Dalla luce autunnale che sembra una bracia
    Sulla catenella dell’apparecchio per suppliziare.

     

    2. Rondini.

    Il cordoglio delle rondini
    Nel rosaceo climaterio
    Di cui garriscono l’ultime sillabe,
    Onde ne circonda mattoni
    Del condominio di San Procopio
    Il riflesso, che dà d’ulcera intingolo
    D’un violaceo sterminio,
    Le vostre illative
    Biglie al bigliardo del cielo.

      (La bicuspide Týn non vi basta,
    Il rosaceo asparago, la velata
    Cipolla dei santi Cirillo
    E Metodio?)

    Pollai aguzzati da un putiferio
    Nel rosa feroce di volpi in un alluminio
    Di gavette, o voi!, presagiti da K.

     

    3. A Praga.

    Cuspidi di Týn, bulbi di San Cirillo e Metodio, organi
    All’opera...


    4. Sudkova elegie.

      Chi mi traduce
    Dalle spine ai chiodi
    Una turba luce
    Corazze gente del Nord

      Chi mi conturba
    Dalle vette ai fiordi
    Della piazza che inurba
    La barbarie con orde

      Sanguinarie... Che strana,
    E che lingua!, γλωσσα, dà balbettii
    Il sacco rimpingua
    D’un’inarticolata scalmana

      Giungono rondini
    Beccano sulla testa il prevosto
    Che riceve i suoi ordini
    Da quelli dell’avamposto

      Tra i martoriati che accorrono
    Sul porfido del Graben c’è Sudek*,
    La sua luce ha quell’orrido
    Nella catinella che brulica

      Di pettirossi che giungono
    Dall’est dall’ovest
    E per la ritenzione idrica
    Beccano i calcestruzzi

      Giungono le aluzze
    Da sud a nord
    Della esazione cloridrica
    Che per una cattura di luce

      Esige da Te dannazione!
     

    *Josef Sudek (1896-1976) fu un grande fotografo ceco: cantore, attraverso la
    fotografia, di Praga, ad esso Jaroslav Seifert dedicò bellissimi versi. Monco
    di un braccio, a causa della guerra, trascinava il pesante treppiede del suo
    cavalletto da un punto all’altro della città vltavina, standosene magari per
    ore e ore in un qualsiasi angolo quartiere piazza o giardino, in attesa della
    giusta luce, che ne traducesse a modo la malia e gli incantesimi riverberati
    dalle sue pietre millenarie.                                                                                          

 

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Registrazione audio Clara Janés - V. Holan, poesie tratte da "Una notte con Amleto"  


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Patrizia Trimboli

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