Milano, 26 aprile 1959;
l’essere sociologa, l’indagine profonda della realtà - tra le verità la meno possibile da cogliere - e il fascino della poesia, capace di ricreare la lingua, sono gli strumenti del fabbro, il quale utilizza la forgia per generare potenza, per modellare, risvegliando l’essenza dell’identità, l’universo dello sguardo che ha difeso e protetto, senza mai rivelare il sangue versato, o il peso del fardello sollevato. Lo studio e l’amore portavoce del corpo e del cuore, le hanno procurato un senso d’innalzamento morale, condividendo la voce che ci fa alzare lo sguardo, ci attraversa e dischiude - penso ai versi di Rilke. La biografia più autentica è quella che trova luogo negli attimi di discernimento più prossimi al battito della creazione. L’ultima sua pubblicazione: CENTO ZOCCOLI, De Piante Editore.
Alcuni versi
si affolla, si acquieta il silenzio –
assottiglia il niente –
s’infratta tutto il giorno, si fa spazio
di ritorno, e all’aperto è quel di dentro
che succhia il midollo d’un momento
..................
le sere col loro braccio di profondità
e le messi di nascite e l’oro giallo tacito
del tuo sguardo scagliato nell’eternità,
fanno scendere in filigrane un algido
silenzio alla cui presenza tutto è oceano;
le sere, nel turbine, sfilano il tuo inizio
non udibile, quello del baratro antico,
appeso al tuo uragano, sbozzato, inverdito,
con denti non svelati e con l’aratro nel vivo;
Patrizia Trimboli
Il varco celato Essenza dell’amore, presenza e “responsabilità poetica” (La decisione, C. Baudelaire) Una stagione in corsia comincia dal primo scalino: una voce che ti chiama per nome. Patrizia Trimbolipatdoc1
Il mio compito: dare parola all’improbabile, essere testimone e testimonianza dell’esperienza più profonda: il dialogo incessante tra la vita e l’istante di estrema lacerazione, tra il passaggio e quel silenzio impregnato d’attesa.
É dalla pienezza di questi attimi, dal vissuto dell’addio, che ci s’immerge nell’enigma dell’esistere, con il “tentativo”, come recita Michel de M’uzan, “di mettersi completamente al mondo prima di sparire”.
L’uomo, la sera, può soffermarsi sul senso e sul compito del suo cammino, e attraverso la poesia ritrovare la lingua capace di rendere presente quel “movimento che trascende la situazione nel valore” (De Martino).
Se non avessi ascoltato, saggiato, il mistero dell’Altro, se non mi fossi seduta al bordo del letto di un moribondo, se non fossi stata in quel luogo di rianimazione, non avrei trapassato il dolore con la forza dell’immaginazione, non avrei ricercato la poesia in questa città di nebbie e di estremi. Non avrei studiato la potenza del suono poetico sulla mente, la parabola che riconduce all’essere. Forse, non mi sarei riconosciuta.
A mezzogiorno, guardando le colline, scruto i lineamenti, le forme, l’oscurità, dei luoghi familiari, i sentieri scoperti, gli strapiombi, l’eco del mare, e, come in un tempo sospeso, percepisco l’anima viva, la lingua della poesia.
Da dove nasce la poesia? Cosa ne sarebbe dell’uomo se abbandonasse la poesia?
Prima di entrare in clinica mi consento un momento di raccoglimento. Poi, basta sbirciare tra le vetrate, un’occhiata ai volti, per ritrovare il grano del sole, oltre l’acre goccia della sofferenza. Il contatto con la malattia e l’esperienza di fine vita hanno accresciuto in me la capacità di essere centrata, entrando in un rapporto più intimo e fiducioso con la vita. Quando guardo l’umiltà dell’uomo sceso nella sofferenza, ritrovo il maestro, e immagino di crescere con lui:
-Io che ti leggo, compagno di cammino, da dentro il tuo corpo infermo, mentre tu sommergi il mio cuore.
Chi è quel parlante ignoto? Mi chino su di te, accendo il cd e la poesia recitata t’incendia, ti pervade, toccherà corde di altezza indicibile: penetrerà nella fiamma che non si distrugge.
Forse, è la parola di un Altro, mi chiedo, da chissà quale altrove viene col suo fiato … Mi pare di vederti, in un raggio luminoso che acceca basse nuvole e sogno. Mi avvicino e, in quella parola che scivola appena, come una foglia, sento vivere tutte le cose. -
Ripercorrendo la strada di casa mi è dolce con gli occhi seguire la mappa dei cieli che ai malati sposta i colori del senso, sentire “la responsabilità poetica” che con fatica operaia varca montagne, tesse segreti nessi, stempera l’ombra alla paura. Come quando percepisco il passo del mio piede scendere ripide scale, oltrepassare una porta e incontrare una terra generosa, sopra radici e verde.
Aver dato ascolto e testimonianza della propria vita, aver fatto qualcosa per amore, mi lascia un silenzio da infinito, il dentro del profumo; mi fermo, sento allora una quiete vasta, e nel breve dormiveglia della prima luce, avverto circolare il respiro che lo accoglie, lo scalda, denso di suoni e orizzonti.
-Il viaggio è stato lungo, mi ripeto, non so chi di noi due fosse il malato, ma insieme abbiamo superato muri, il soffoco del grido, abbiamo osato nel fumo, e le palpebre hanno scandito il lieve battito d’ali, il ritmo paziente del volo, nel chiaro di ciò che non ha nome e cenere. Abbiamo tenuto in mano il rocchetto del filo che disegnava l’arco.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai per una selva oscura/ché la diritta via era smarrita. / […] Io non so ben ridir com'i' v'intrai, /tant'era pien di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai.” (Dante Alighieri, Inferno: Canto I)
In nessuna circostanza della vita mi sono trovata dinanzi, negli occhi, al mio fianco, un’alba slacciata di ogni consistenza, visibile di luce e di suono. Spoglia di peso e di freddo. Come se al di sopra di ogni carrozzina, dove il corpo era adagiato, si fosse aperto un Portone Bianco, e io avessi trovato parole che aprivano il verbo, un passaggio alla sua radice, un’opera piumata venuta per risvegliare quella figura scheggiata dalla notte. L’indomani uno di loro si sarebbe svegliato, come da una grazia e da una irrefrenabile volontà. Con in grembo il varco celato della poesia. Come un sogno che parla dagli occhi e ha il tuo domani nelle mani.
In quel varco celato abbiamo ritrovato il senso, il luogo dove riposa l’odore della terra, il verde-azzurro dell’acqua e il sole, la strada e la casa: perché è tutto quello che fa un mattino.
Ho visto cosa libera la poesia e mi bisbiglia quando guardo la montagna; e in che modo la musica trasforma il ribrezzo quando l’impossibile è ciò che accade, e più profondamente saccheggia la luce segreta.
Sento la mano sicura e ferma nel tepore del buio, cerca la voce dell’uomo ferito, infermo, che si alza rischiarata, con lo stesso cuore che da bambina riempiva le tasche di mele. Il cono di luce, gli occhi colmi di stupore.
Di bivio in bivio, il varco della poesia si fa vista, principio, centro, fine, verso l’unicità del nostro Valore. Abbassa i muri fioriti nella notte. Mi attende, dove sempre è ora, e annoiarsi non serve.