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Roberto Ghiozzi

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(Livorno, 4 ottobre 1945); la cui musica ascolto sorgere come fogli infiniti dove la vita comincia a scrivere; per un momento avverto la luce fare un bouquet di note e il domani infiammarsi di speranza.

La terapia della musica acquisisce, con Roberto, una sorta d’innalzamento morale, una possibilità di discernimento vicino alla verità. Lo scambio delle parti fra l’io e il tu ci dà la percezione di essere nel cuore dell’identità: il tu, l’altro in noi, diviene voce di preghiera, incontro.

Penso che nel suo iniziarci alle basi della Musicoterapia Umanistico Trasformativa ci abbia affidato un luogo in cui qualcosa accade, ritmicamente, senza posa, al di là dove c’è consentito vedere, per divenire appello a un compito, colloquio tra origine e destinazione. “Ogni pagina che si gira è una candela / che si muove nella mente” (Mark Strand).

Nei suoi libri ho ancora da scoprire tutta la verità, in particolare ne “La musica nel passaggio luminoso. Musicoterapia con malati terminali”.

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Sito: www.mutpuntodisvolta.net

Critica Ghiozzi Testo

  • La tua musica sentita da un altro

    Pensi che la musica sia una dimensione aggiuntiva, possa colmare un vuoto e mentre la senti sopraggiungere, come tante altre volte, ne trattieni l’essenza. In qualche modo percepisci che ti crea, è lo stesso della poesia: porta a compimento una risposta al cuore. Diviene un’occasione per prepararti, dentro, a qualcosa che avevi conosciuto, nel segreto: la creazione. Proprio nell’esercizio immaginifico, spirituale, agisce la creatività. Se fossi stato capace di esprimerlo a parole saresti divenuto un poeta, a chi avresti detto che liberarsi dell’io, fino a lasciarlo avrebbe significato possedere?
    Conoscere Roberto ha rivelato proprio quell’esercizio del fare anima. Sapevo che avrei potuto affrontare il buio in me così vicino alla sopraffazione della voce interiore, all’idea che il libro della mia vita sarebbe stato vuoto. Continuo a sfogliare le pagine dei ricordi. Una volta ci siamo incontrati in treno - era un altro secolo quando eravamo saliti - non potevamo sapere che questo giorno sarebbe arrivato e avrei fronteggiato proprio quel nulla, mediante un cambiamento di percezione: momenti inondati di verità, dell’esperienza dell’Altro, dove tutto è mai senza musica.
    Suonavi ed io afferravo l’esperienza dell’infinito in me, aprendomi a ciò che magnifica. È così che l’enigma dell’armonia si addentra nel corpo e diviene diffusa quiete, pratica mistica. È come se mi fossi abbandonata alle note, al loro circolare nelle vene, protendendomi verso la meta in cui mi dirigo, mantenendomi presente, nel silente colloquio fra nodi di dolore, nella prossimità dove sguardo e luce si fecondano. È la medesima mano, dopo il silenzio, che regge la penna, quando mi chino con fedeltà al foglio e mi faccio testimone della tua arte, Roberto, e di questa bellissima lingua, facendola parlare.

    Ascoltavo la musica germinare dalle tue mani, come se l’avesse suonata un altro. Non c’era modo di capire come mai un uomo, di là dalla strada, si trovasse lì, pareva ci venisse a trovare. Si fermò, lui si sentiva meno di qualsiasi cosa, mendicava. Tu continuasti a dialogare con il pianoforte, rivelazioni istantanee sembravano quasi stabilire un adesso tra noi tre. 
    La musica dice più di quanto possiamo udire.
    La storia delle nostre vite apriva un nuovo libro. Così cominciammo a sfogliare l’infanzia, alcune cose svanirono, altre tornarono per raccontare, offrire una trama differente, e ciò che ci appariva come confusione ora svelava. Restammo in silenzio, commossi. Sentii respiri tra gli alberi, come un flusso.
    Lo sconosciuto guardò fisso dentro, arrivava a trasmettermi un senso.
    Questo non era lo specchio dove vedeva se stesso un nessuno, là in piedi.
    Eravamo solo una modesta parte del presente.
    Quando chiuse gli occhi, comparve un sorriso.
    Il viaggio pareva diverso da come se l’era immaginato, lo spronava a proseguire.
    Sostò ancora un poco, sapeva che ci avrebbe lasciato. Poi, sparì.
    Era estate, il sole sul verde. In lontananza … i compagni. Tutti tenevamo fogli per mano, qualcosa che potevamo portare con noi.

    Patrizia Trimboli

  

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  • La musica del profondo

    LA MUSICA   DEL  PROFONDO

     

    «La mia identità l’hanno formata i poveri» ci dice fratel Arturo Paoli una sera a Bolzano mentre ceniamo. Da 97 anni questo piccolo fratello del vangelo lucchese cammina lungo i sentieri impolverati del mondo trovando rifugio fra i dannati della terra (dai boscaioli argentini ai contadini salvadoregni, dai senza terra brasiliani agli abitanti delle tante favelas). È un giusto fra le nazioni, ha salvato vite di ebrei perseguitati dal nazismo, ha sperimentato liberamente la propria ricerca d’infinito, ha vissuto nel deserto algerino e ha alimentato la teologia della liberazione latinoamericana. Ha fuso insieme terra e cielo. Non si è mai fermato e anche oggi continua a cercare.
    Roberto Ghiozzi ascolta in silenzio il racconto di questo «giusto fra le nazioni», quasi riconoscendosi in molte delle cose che dice: «Anch’io - mi confida più tardi - sono un nomade come Arturo, anch’io ho viaggiato sulle navi e anch’io posso dire di essere stato formato dagli ultimi rifiutati dalla società».

    Roberto è un musicista. Ha suonato un po’ dappertutto. Era il tastierista dei «Satelliti», un gruppo rock noto negli anni Sessanta per aver suonato al fianco di Gianco e Celentano.
    Sull’onda del successo, una volta sciolto il gruppo nel 1971, ha cercato nuove esperienze musicali ed umane in America. Suonava dove capitava e con chi trovava, anche solo per una sera. A New York si è immerso nei gironi notturni della vita da sballo cogliendo l’attimo. Per due anni ha ripercorso, forse senza nemmeno saperlo, la vita di Thomas Merton, il famoso monaco trappista del Kentucky, bandiera della contestazione contro la guerra del Vietnam, morto inspiegabilmente a causa di un ventilatore difettoso in una stanza d’albergo a Bangkok. I racconti di Roberto di quell’esperienza americana mi fanno pensare sempre al giovane Tom che girava nei pub newyorkesi ascoltando il jazz e il blues fino a trovare Dio nel volto sfigurato dei barboni che dormivano agli incroci della grande città: «Quello che indosso - diceva - è un paio di pantaloni. Quello che faccio è vivere. Il modo in cui prego è respirare».
    Rientrato in Italia, Roberto ha fatto il pianista sulle navi dei turisti in rotta nei mari del nord. E ha continuato a suonare al pianobar nei locali notturni fino alla metà degli anni Ottanta.
    Poi la sua musica è stata catturata dal volto degli altri: i sieropositivi, i malati terminali, i sofferenti, gli emarginati. Ha aperto i suoi registri sulla dimensione ultima della morte, in quello spazio armonico che ondeggia fra un prima e un dopo, fra l’essere e il non essere. Ma, soprattutto, ha fatto i conti con la tragedia della perdita di un caro amico, ucciso dall’Aids: «Improvvisamente - ricorda Roberto - mi sono sentito tremendamente solo. Ero stanco di vivere in questi ambienti, desideravo sospendere la professione. Mi sentivo particolarmente solo e insoddisfatto.
    Roberto parla di conversione, come se di punto in bianco la musica di prima non fosse più la stessa musica. Le domande di senso incalzano: «Mi rendevo conto -
    ricorda - che la mia musica contribuiva in qualche modo a spingere il pubblico a consumare più alcolici, a sballarsi. Ero stanco di tutto questo».
    È il momento rivelativo. Roberto si mette a cercare e scopre la sua dimensione «cosmica». Alcuni monaci, in particolare Franco, un camaldolese, gli indicano una via. Roberto la percorre con gli interrogativi di sempre..
    Entra nei «sotterranei della storia» (un centro di recupero per tossicodipendenti) dove i giovani degli anni Ottanta tentavano disperatamente di uscire dal tunnel: «In poco tempo - ricorda Roberto - conobbi molti giovani schiavi dell’eroina e di altre droghe. Non riuscivo a capire il perché di tutta questa sofferenza. Nel centro incontravo giovani che buttavano la loro vita per rincorrere una sostanza: era il loro dio, il loro idolo. Mettevano sull’altare la bustina davanti alla quale si inchinavano, e sacrificavano tutti i loro sogni. Era un ambiente nuovo per me, molto coinvolgente. Alcune ragazze avevano l’età delle mie figlie. Sentivo che per me era naturale stare vicino a queste persone. Ma spesso mi assaliva il
    dubbio la stanchezza; allora mi sorprendevo a domandarmi: “Che cosa ci sto a fare qui?“, e subito dopo mi rispondevo con un senso di pace: “Questo è il mio posto“. In questi luoghi la mia vita acquistava un senso. Ripensavo a tutto il lavoro di prima: i pianobar, le discoteche, i nights. Una realtà assurda, vuota, che non mi dava più niente. Mi dicevo spesso: “C’è tanta sofferenza, questi ragazzi si drogano, si distruggono, si uccidono. Se riesco a tirarne fuori anche uno solo, a fargli capire quanto è bella e preziosa la vita, nonostante tutto, la mia esistenza può avere un significato, potrò dirmi che non ho vissuto inutilmente”».
    La musica è l’arte di Roberto. Quella musica che, fino a poco tempo prima, era servita a intrattenere i clienti dei locali, sarebbe potuta diventare uno strumento
    importante di accompagnamento alla vita e nel processo del morire, ma anche di cura di malattie del sistema nervoso, psichico, o come fonte di energia per uscire
    dalle dipendenze.
    Roberto approfondisce i suoi studi ed è invitato, dopo la presentazione di una sua ricerca nel campo dell’a.i.d.s, a fare parte del Gruppo di Studi e Ricerca della Cattedra di Pedagogia speciale per l’handicap della Università degli Studi di Verona, in seguito decide di intraprendere, parallelamente alla sua attività di terapeuta un nuovo corso professionale e, in collaborazione con l’Agenzia di Formazione Cesfor di Bolzano, apre una scuola di musicoterapia ispirata ad un approccio, da lui ideato e sviluppato, denominato: Musicoterapia Umanistico Trasformativa. Fonda una associazione per i professionisti della Musicoterapia Umanistico Trasformativa denominata Punto di Svolta e il Gruppo di Studio e Ricerca in musicoterapia u. t.
    Nel 1993 le sue mani suonano il piano per i pazienti terminali colpiti dall’Aids. Tramite un progetto della Caritas di Bolzano entra nel reparto infettivi del San Maurizio. È un lavoro delicato, difficile, tutto incentrato sulla relazione umana. Il suono comunica, racconta, svela, rivela. Si instaura un clima «religioso», nel senso proprio del termine, ossia di legame profondo, di relazione fra la realtà e il mistero.
    La prima esperienza è illuminante. Roberto comprende che da ora in avanti quella sarà la sua professione. Studia, viaggia, impara, ascolta, sperimenta.
    L’attività si estende ad altri ambiti: bambini autistici, cerebrolesi, patologie compulsive come il gioco d’azzardo patologico, atrofia spinale degenerativa,
    coma e postcoma.
    L’ospedale di Negrar a Verona per pazienti in stato di coma, si avvale della sua collaborazione.  Roberto,  con  l’apporto  di  alcuni  giovani  colleghi,  lavora meticolosamente con la musica per motivare i malati al risveglio. Suona, tenta di entrare in un rapporto di empatia, verifica l’effetto prodotto da quel suono, analizza i dati, filma ogni piccolo atto del paziente perché il minimo movimento potrebbe  offrire  elementi  utili  alla  terapia  medica.  E'  un  lavoro  faticoso, possibile grazie ad una forte autodisciplina meditativa. Ogni giorno Roberto si prende il tempo per svuotarsi, a dare sostanza al vuoto, ma non nel senso negativo che questa parola ha assunto in occidente, ma con la profondità dell'oriente,  come  lo  argomentano  i  monaci  tibetani.  Ha  scritto  il  saggio Rinpoche: «Il vuoto, natura ultima del Dharmakaya, corpo assoluto, non è un semplice nulla. Esso possiede intrinsecamente la facoltà di conoscere tutti i fenomeni.   Tale   facoltà   costituisce   l'aspetto   luminoso   e   cognitivo   del Dharmakaya, la cui espressione è spontanea. Il Dharmakaya non è il prodotto di cause e di condizioni ma è la natura originale della mente».
    Il percorso di Roberto continua in profondità con la sua ricerca, la sua attività di terapeuta, i suoi numerosi viaggi, le conferenze in Italia ed all’estero e la sua attività di formatore. Tutto questo, come lui stesso dice, per essere al servizio dell’altro, per divenire esperti in umanità, per uscire dalla convinzione della separatività, e - rifacendosi alla visione sistemica della vita afferma: non siamo isole ma un continente, siamo tutti collegati esseri animati e non.

     

     [1] Arturo Paoli, Piccolo Fratello di Charles de Foucauld, ha vissuto operando per oltre 40 anni in America Latina.

     [2] Thomas Merton, scrittore e mistico

     

     

    Dott. Francesco Comina

    giornalista e scrittore

     

     

     

     

     

     

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Lezione su musicoterapia a disabilità di Roberto Ghiozzi

Video: Punto di svolta

Video: Che suona ha la vita

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Patrizia Trimboli

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